L’accesso alla falesia è comodo, ben tracciato e richiede una mezz’oretta di cammino. Dopo aver lasciato l’auto al parcheggio della chiesa, con zaini e attrezzatura in spalla, imbocchiamo la strada acciottolata che, costeggiando il cimitero, prosegue in salita per poche centinaia di metri, prima di diventare più stretta e ripida. Dopo una serie di gradini prendiamo una traccia sulla destra, che attraversa un pratone coltivato a ulivi e continuiamo a salire, verso la falesia. Essendoesposta a est prende il sole fin dal primo mattino ed è frequentata generalmente nelle mezze stagioni e nei mesi invernali. Dodo sembra voglioso di mostrarmi quella che lui sente un po’ come una delle «sue falesie». Chiodata negli anni Novanta dai monzesi Fabrizio Moroni e Claudio Pagani, questa fascia di roccia andò in un primo momento in disuso per via dell’avvicinamento e della chiodatura a volte un po’ distante. Prima di arrivare sotto la parete principale, verticale e a tratti leggermente strapiombante, ci imbattiamo nella Grotta. Un settore molto strapiombante, con tiri tecnici e di continuità, e gradi che vanno dal 7a all’8c.
Nel frattempo, senza troppa fatica, arriviamo fin sotto la falesia. Mentreappoggiamo gli zaini, prepariamo corde, rinvii e moschettoni, ci godiamo il panorama del lago sotto di noi e del Legnone di fronte.
Non un filo di vento a increspare le acque, uno specchio argentato dalla leggera foschia che, presto, dovrebbe lasciare spazio a un bel cielo terso. Dodo indica la fascia di roccia che incombe sopra le nostre teste: un lungo muro a tacche, intervallato da brevi tetti e da spettacolari «canne» che salgono sul giallo. Il sentiero arriva circa a un terzo della parete, che per comodità è stata suddivisa in due settori: rispettivamente sinistro e destro, in relazione al sentiero. È qui che Domenico comincia a raccontare della passione per la scultura, alternandola ai ricordi sulle giornate trascorse in falesia con la tribù, a scalare e a chiodare. Come se, in fondo, per lui scalare e scolpire fossero la stessa cosa. Perché anche le vie sono, in un certo senso, opere d’arte. Chi chioda dà vita a qualcosa di nuovo, individuando la linea da salire all’interno di un mare di roccia.
Saliamo verso destra, dove i tiri sono più corti ma più intensi e dove Dodo decide di “riscaldarsi”. Qua le partenze, fisiche e leggermente strapiombanti, sono seguite da muri verticali o appoggiati, decisamente più tecnici. A sinistra, invece, prevalgono i tiri più lunghi e di resistenza. Proprio in quest’ultima parte Dodo ci convince a provare Mistral (grado 6c+). Venticinque metri di continuità e resistenza, considerato uno dei tiri più estetici non solo di Mezzegra ma dell’intera area. La chiodatura, sicura ma non ravvicinata, rende i passi-chiave obbligati. Mistral è un tiro estremamente logico perché, dopo una partenza su tacche tecniche e movimenti di equilibrio, si sviluppa lungo una sequenza di canne e concrezioni presenti solo in questo tratto dell’intera falesia. Questa parte centrale è meno di equilibro e più fisica, con movimenti di allungo su prese quasi sempre buone e passi di aderenza. Gli ultimi metri salgono un muro verticale, a tacche nette e gocce, e permette allo scalatore di tirare un respiro di sollievo ma non certo di rilassarsi.
Dopo qualche salita, eccoci di nuovo nell’abitazione di Dodo a Santa Maria Rezzonico. Faccia a faccia con la sua vene artistica fatta di conchiglie, indiani, vasi, pesci. A tratti levigata, piuttosto che lucidata o bocciardata, l’arte di Domenico Soldarini è passata da una prima fase principalmente figurativa ed una seconda, più astratta. «L’idea di dare forma alla materia, di plasmare, mi è sempre piaciuta. Con la scultura ho iniziato da autodidatta. A volte le cose succedono così, per caso. Vedi dei sassi la cui forma ti ricorda qualcosa, li porti a casa e poi decidi di comprare un flessibile e di cercare di realizzare quell’immagine che hai in testa. La roccia di Mezzegra non può essere lavorata con scalpello e martello, come invece accade con il marmo. È dura e fragile, e per lavorarla si utilizzano dischi diamantati. A volte vado da un amico (scultore) che mi dà delle dritte su come scolpire, sulle forme, sui pezzi che possono avere, a suo parere, un valore anche in termini economici. Nella scultura, pur libera che sia, esiste tutta una serie di regole riguardanti forme, volumi e linee che vanno rispettate se si vuole che la propria opera sia priva di imperfezioni. È un percorso in continua evoluzione». L’opera perfetta? «Credo non esista. Esattamente come non esiste la via di roccia perfetta. C’è sempre spazio per il miglioramento e anche quello che in un primo momento sembra privo di difetti, col tempo, non si rivela tale». Alla ricerca della perfezione, si direbbe, e il luogo in cui Dodo vive e produce le sue sculture, che sembra un angolo di paradiso sfuggito per caso al Creatore e dimenticato in Terra, di certo non può che ispirare la sua arte. Insieme alle sculture, ordinatamente sistemate in un raccoglitore ad anelli, ecco comparire anche relazioni di vie e falesie (tra queste anche quella di Mezzegra) tutte disegnate e scritte rigorosamente a mano.
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